Una piccola memoria per raccontare un ’68 personale fatto di dettagli e aneddoti
Anni fa l’amico Megali mi chiese una piccola memoria “di quegli anni”. Mi è capitata adesso, di rileggerla, mentre cercavo altro. Ci sono annotazioni non essenziali, ma che forse a qualcuno può interessare. Anche per ringraziare Domenico per l’idea di far raccontare un ’68 personale ad una serie di protagonisti diversi tra di loro.
Il movimento del ’68 visto non come anno ma come periodo della contestazione giovanile, inizia almeno un anno prima e continua un paio d’anni dopo. Nasce nel 1967 come movimento spontaneo, non ideologizzato dove i riferimenti teorici arrivavano al massimo al giovane Marx, Rosa Luxemburg, Marcuse apparentati con molti poeti della beat generation americana. Io ho vissuto l’alba del movimento a Milano in una Università Statale dove le prime occupazioni notturne erano accompagnate da chitarre e spinelli. Ricordo quello stare insieme amichevole, complice, coscienti che stavamo facendo qualcosa che rompeva schemi che toccavano anche la famiglia, l’educazione, il vedere l’università non solo come luogo di studio ma anche come luogo dove portare e vivere in prima persona istanze alternativa.
E’ stata la fase libertaria e spontanea dell’inizio del ’68, che muoveva da esigenze esistenziali direttamente connesse alla vita quotidiana. I giornali di destra, La Notte, Il Corriere Lombardo, ci regalavano titoloni del tipo: sesso, droga, musica e avevano assolutamente ragione anche se ingigantivano questi aspetti e tacevano le motivazioni più politiche: università aperta, diritto allo studio per i figli degli operai, confronto con le baronie universitarie.
Tuttavia per me il movimento era iniziato molto prima, alla fine del 1966, quando con Antonio Pilati, Marco Maria Sigiani, Gianfranco Sanguineti demmo vita a Onda Verde, un gruppo ispirato ai Provos olandesi. Prima che la contestazione vedesse protagonisti gli studenti, noi, un piccolo gruppo, vedevamo nei ragazzi scappati di casa, che si facevano crescere i capelli, che rifiutavano l’insegnamento nozionistico della scuola, un avanguardia giovanile di ribelli che presto, come profetizzammo nel nostro giornalino, avrebbe contaminato le masse studentesche, come poi avvenne un anno dopo. Io vivevo una contraddizione esistenziale forte. Vivevo ancora in casa dei genitori godendo di una piena libertà di movimento e di pensiero. Parlavo e scrivevo contro la famiglia ma vivevo in famiglia. Quando decisi di uscire di casa e mantenermi da solo fu più una scelta di coerenza più che una necessità impostami dai miei. Questo mio vissuto famigliare così diverso da tanti miei coetanei che invece vivevano conflitti traumatici coi genitori, mi spinse a una particolare attenzione alla coerenza sul piano delle idee. Era forte in me la convinzione che stavamo cambiando la vita e che fosse importante farlo radicalmente, prima che la vita cambiasse noi come è poi capitato a tanti.
Cambiamo la vita prima che la vita cambi noi fu lo slogan che ritornerà negli anni successivi, nei pop festival organizzati da Re Nudo, la rivista/movimento che portò avanti e fece crescere le istanze del movimento del ‘68. Io credevo molto nella necessità di essere da esempio, alla coerenza idea-vissuto. Quando ricevetti la cartolina della chiamata al servizio militare decisi che avrei dovuto rifiutare la divisa e che avrei potuto usare questa opportunità per affermare le nostre idee: evidenziare il ruolo autoritario e oppressivo del servizio militare e dell’assurdità che non si potesse servire il proprio Paese senza imbracciare le armi. Inoltre c’era una presa di posizione contro gli eserciti in generale come corporazione anacronistica rispetto i tempi moderni. Quando decisi di fare l’obiettore di coscienza alla chiamata, ricordo come inizialmente mio padre tentò di scoraggiarmi come avrebbe fatto qualunque altro padre. Ricordo bene le sue parole: Ma lo sai cos’é la galera?, poi cercando di sminuire e minare le mie motivazioni Ma perché lo vuoi fare? Perché è un gesto di rottura che credo possa servire a far pensare. Rispondevo. Si è una grande rottura di coglioni. Certo, al momento mi sentì ferito e incompreso, non avevo capito che in quel momento mio padre non era il dirigente socialista della lotta clandestina antifascista, ma era un padre che cercava di evitare in ogni modo la galera al figlio. Anni dopo, avrei saputo da mia madre quanto lui mi avesse seguito, senza farsi accorgere, sostenuto e rispettato nella mia scelta. Come quando dopo il mio rifiuto ufficiale della divisa, avvenuto al C.A.R. di Cosenza, mio padre ricevette una telefonata dell’allora Ministro della Difesa Roberto Tremelloni, suo compagno di Partito, chiedendogli cosa potesse fare per me. La risposta di mio padre fu lapidaria: soprattutto non fare niente. Una risposta chiara e secca che rispecchiava quanto avesse compreso che qualunque privilegio avessi avuto per la mia condizione sociale, sarebbe stato una mancanza di rispetto nei miei confronti e avrebbe minato il significato del mio gesto.
Ed è in questa seconda fase che mio padre si manifestò, sia pure dietro le quinte, non come padre ma come il dirigente antifascista che aveva pagato con galera e campo di concentramento per la sua lotta politica. Il sostegno di mia madre durante la permanenza nel carcere militare di Gaeta fu quello di portarmi i pacchi ogni mese, con le cose buone che sapeva mi avrebbe fatto piacere mangiare. Mia sorella Marina, condividendo nei colloqui la solidarietà che mi portava dei miei compagni di Onda Verde ma non solo, anche dei miei amici e anche di chi aveva idee diverse dalle mie ma che teneva a dimostrare la propria solidarietà. Cose importanti che mi aiutarono a vivere l’esperienza del carcere rinforzando le mie motivazioni. D’altra parte mi aiutò anche l’amicizia nata a Gaeta con un mio compagno di prigionia, Ruggero, un testimone di Geova. Questo rapporto, mi dette la misura di quanto tutto abbia un valore relativo, anche la sofferenza di una carcerazione. Io avevo scelto una obiezione politica, una disobbedienza simbolica, che sapevo mi sarebbe costata una sola condanna al massimo di un anno o due ma poi sarei tornato alla mia vita di sempre. Lui avrebbe reiterato la disobbedienza, accumulando condanne dopo condanne perché coerente con la sua scelta religiosa e quindi avrebbe passato molti anni in carcere perché allora non veniva riconosciuto alcuno status particolare ai Testimoni. Anche la sua serenità che percepivo nell’affrontare la realtà mi dette non poco coraggio.
Quando un anno e mezzo dopo scontata la pena andai a fare il servizio militare vissi un’altra fase della lotta. Di stanza a Monza svolsi una attività dall’interno che mise in subbuglio tutta la gerarchia militare del reggimento. Quasi ogni sera saltavo il muro di cinta e tornavo all’alba, sabotai i carri armati con lo zucchero, portai volantini firmati proletari in divisa in caserma. Mi vivevo come un militante clandestino che sfidava però apertamente il proprio avversario. Per le fughe notturne scontai mesi e mesi di camera di punizione mentre per ciò che configurava reato penale, invece, negavo ogni addebito anche se tutti sapevano senza riuscire a provare nulla. Vissi col mio capitano, ricordo si chiamasse Baldrati, un rapporto ambivalente. Lui convinto militarista mi minacciava continuamente di rispedirmi a Gaeta se fosse riuscito a dimostrare che ero io a sabotare la vita militare, ma nello stesso tempo percepivo una forma di rispetto per la coerenza e per l’assunzione di rischi che mi prendevo e per l’obiezione di coscienza che mi aveva procurato più di un anno di carcere. Quello che lo aveva colpito particolarmente era il fatto che non era stato un obbligo religioso ad avermi fatto fare l’obiezione, ma averla considerata come una forma di lotta politica che aveva comportato un prezzo di cui ero pienamente consapevole.
Le rare volte in cui mi mandava in licenza mi ammoniva paternamente: guai se partecipi a qualche manifestazione! Poi quando terminai il servizio militare raccontai tutto in un grande reportage sul settimanale ABC (tutto, tranne il sabotaggio dei carri armati ovviamente) e seppi poi da un mio commilitone, Nello Venanzi, figlio del senatore del Pci dell’epoca, che gli ufficiali di alto grado furono trasferiti in Sardegna e che ci fu un vero e proprio terremoto all’interno della caserma. E in fondo mi dispiacque per il mio capitano. Quando uscii il movimento aveva ancora una impronta libertaria e pluralista ma questa fase durò poco, presto cominciò un progressivo processo di ideologizzazione. Verso la fine dell’anno si erano delineate diverse linee politiche che dividevano l’Università Statale in senso marxista-leninista e Architettura più operaista. Io tentai con un piccolo gruppo di realizzare un giornale di controinformazione: Gli studenti alla città con cui volevamo comunicare ai cittadini le istanze del movimento senza schierarsi con alcun gruppo. Stampammo 10.000 copie e i primi due numeri andarono esauriti rapidamente. Vendevamo il giornale per strada, alle uscite dei cinema del centro. Non era nelle edicole, a parte quelle della Statale che ne vendeva centinaia. Aveva un taglio super partes, non schierato con gli uni o con gli altri. Per questo Mario Capanna nonostante i rapporti personali tollerava a malapena che lo si vendesse alla Statale.
Questa esperienza fu improvvisamente troncata perché caddi in una trappola tesami dalla narcotici. Mi trovai a vendere un po’ di erba a uno che credevo mio amico della casa dello studente e del lavoratore e invece era un agente provocatore. Così passai sette mesi e venti giorni a San Vittore. Anche questa del carcere civile fu una esperienza importante che mi aiutò a conoscermi meglio e a conoscere una realtà nuova. Il mio stato d’animo era cambiato. Non ero in prigione per scelta ma per una ingenuità. Trovai tuttavia la forza dentro di me per continuare la lotta politica all’interno del carcere. Ci furono giorni in cui in diversi istituti penitenziari italiani i detenuti manifestavano pacificamente per riforma e amnistia. Ricordo un giorno in cui durante l’ora d’aria chiamai i detenuti in una sorta di assemblea proponendo di manifestare esponendo lenzuola con le scritte fuori dalle celle facendo uscire dal carcere un comunicato stampa. Seduto all’aria, insieme alle sue guardie del corpo c’era anche Eugenio Saccà che con suo fratello Dante era il boss della criminalità organizzata che gestiva a Milano droga, azzardo e prostituzione. Lui disse laconicamente Non se ne fa niente.
Non sapevo che comandavano anche in carcere dove godevano di una libertà e privilegi particolari. Non sapevo che rispondere come feci: Beh mettiamo i voti significava commettere uno sgarro che nel codice malavitoso prevedeva condanna a morte. Così finita l’ora d’aria, dopo aver visto il disperdersi dei detenuti che mi avevano lasciato solo a seguito della mia sfida ai Saccà, ritornando in cella sentii un aprirsi e chiudere dei cancelli sulle scale del mio raggio e vidi salire veloce verso di me un energumeno armato di coltello. Nello stesso tempo mi sentii prendere per le spalle da qualcuno che mi prelevò di forza facendomi uscire dall’altro cancello che si era aperto alle mie spalle. Questo qualcuno era Sante Notarnicola, un ergastolano facente parte di quella banda Cavallero che all’epoca aveva compiuto una cinquantina di rapine in banca in mezza Italia (l’ultima a Torino con dei morti) e che aveva una vaga motivazione politica. Fu così che scoprii che Sante era quello dentro la banda che aveva più coscienza politica e dopo avermi salvato la vita, ottenne dai Saccà un riconoscimento di un mio status particolare. Gli ergastolani per la loro condizione avevano molta autorità e riscuotevano un rispetto dalla malavita. Nessuno metteva in discussione una loro richiesta. Così frequentai la cella di Notarnicola e Cavallero che era sempre aperta e scoprii il lato umano e l’anima di un fuorilegge che aveva sparato e ucciso. Sante, divenne poi un poeta, e fu anche amico di mia sorella Marina. La sua evoluzione mi aiutò a comprendere certe trasformazioni che possono avvenire in carcere. Un luogo dove, se è vero che per la maggioranza, soprattutto per la piccola delinquenza, costituisce una università del crimine, per una minoranza di veri e propri criminali può essere luogo di riscatto come dimostrarono poi spesso i radicali con il loro lavoro in carcere.
Quando uscii da San Vittore ormai il movimento degli studenti spontaneo era finito, erano nati il Movimento Studentesco rigidamente marxista-leninista-stalinista, un vero e proprio gruppo politico che aveva fondato un proprio giornale. Da Trento era arrivato Mauro Rostagno con cui sentii subito una grande empatia. Aveva formato il gruppo operai-studenti che volantinavano alla Pirelli, alla Breda, alla Siemens, e avrebbe poi dato vita a Lotta Continua. Ad Architettura stava nascendo Avanguardia Operaia sempre come alternativa allo stalinismo dilagante tra Movimento Studentesco e altri gruppi maoisti nascenti. Da questi gruppi la fase esistenziale veniva liquidata come piccolo-borghese tutto era diventato politica e ideologia che riguardava le otto ore lavorative. Faceva eccezione Mauro Rostagno all’interno di Lotta Continua con cui era iniziata una collaborazione che andò avanti fino alla sua tragica morte per mano della mafia. Fu poi la ragione per cui alla fine del ‘69 decisi di dare vita a una rivista nazionale che affrontasse le altre 16 ore di vita oltre il tempo di lavoro, quelle dei temi esistenziali, del tempo libero, della musica come aggregazione, delle comuni, delle droghe psichedeliche. Così nacque Re Nudo che veniva letto anche nelle università, ma di nascosto dai leaders dei gruppi politici. Fuori dall’Università Statale potevo venderlo solo io mentre se andava qualcun altro veniva allontanato e spintonato via da quelli del Movimento. A me personalmente Capanna riconosceva una agibilità dello spazio che veniva negata a tanti. Ma nonostante l’ostracismo nei confronti di Re Nudo, la rivista venduta all’uscita delle scuole e delle università o ai concerti come alle uscite dei cinema, aveva una grande diffusione.
Anni dopo seppi da Oliviero Diliberto quando era dirigente di Rifondazione Comunista, che anche lui era stato tra quelli che leggevano Re Nudo di nascosto. Lui e altri di nascosto al proprio Partito e altri ancora di nascosto ai propri genitori. Avevamo fatto breccia nel gruppi politici e nelle famiglie con le nostre tematiche esistenziali. Certo, non fummo soli. Ricordo il sostegno di Giorgio Gaber, ad esempio, quando uscimmo col manifesto raffigurante una famiglia patriarcale del primo novecento e la scritta lapidaria in grande: La famiglia è ariosa e stimolante e sotto in piccolo: come la camera a gas. Ricordo anche il sostegno più defilato di tanti altri artisti come Battiato, De Andrè, Finardi, Ivan Cattaneo, tanti che avrebbero poi partecipato ai nostri festival prima del parco Lambro e poi alle feste del proletariato giovanile. E’ stato anche un periodo totalizzante dove ho anche perso di vista amici e amiche che amavo ma che non si riconoscevano in questa mia scelta di vita radicale. Frequentavo quasi solo i miei compagni di strada. Non so se fu scelta obbligata. Sicuramente ho un piccolo rimpianto, ma questo credo faccia parte del senno di poi. Oggi a 50 anni di distanza riuscirei a distinguere i rapporti personali e affettivi dalle mie scelte di vita. Ma questa è un’altra storia.