Guai se si confonde l’essere ebreo con l’essere israeliano. E guai non considerare la minoranza israeliana che vuole i due popoli e, due Stati, nonostante proprio loro e non a caso, siano stati massacrati da Hamas, quel 7 ottobre, selezionando i loro kibbutz. La dichiarazione di Micol Meghnagi, della rete ebraica per la Palestina
A Parigi, nel marzo 2024, 20 gruppi ebraici provenienti da 14 paesi europei si sono incontrati per la prima volta durante un convegno internazionale in solidarietà alla Palestina. Da lì è iniziato un percorso comune, ufficializzato nel settembre di quest’anno sotto l’ombrello di European Jewish for Palestine (Ejp).
Tra le fila, il berlinese Jewish Bund e il francese Tsedek (in ebraico «giustizia»), che si sono resi promotori, negli scorsi mesi, di significative manifestazioni per la fine dell’attacco militare israeliano a Gaza. È presente anche una sigla ebraica italiana, quella del Laboratorio ebraico antirazzista (Lea), attiva dal 2020 sul territorio e dal 7 ottobre, per chiedere il cessate il fuoco a Gaza e la fine dell’apartheid in Palestina.
TRA LE AZIONI di Lea, la raccolta di oltre 160mila firme consegnate al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel gennaio 2024, con la richiesta alle istituzioni italiane di prendere una posizione netta e di contrasto alle politiche di Netanyahu.
La presentazione della nuova rete è avvenuta la scorsa settimana presso le sedi del Parlamento europeo di Bruxelles e segue le orme del gruppo americano Jewish Voice for Peace. L’evento è stato ospitato da tre parlamentari: Marc Bottenga (The Left, Belgio), Mounir Stouri (Greens/EFA, Francia) e Hanna Jalloul (S&D, Spagna), e ha visto l’adesione di vari rappresentanti di organizzazioni antirazziste della società civile europea e palestinese.
La data scelta, il 3 ottobre, non è stata causale: coincide con l’inizio del capodanno ebraico, Rosh Hashanah, che segna nel calendario l’anno 5785. «Stiamo segnando questo importante momento del calendario ebraico con un messaggio di solidarietà con il popolo palestinese e un appello per porre fine al genocidio a Gaza e ai crimini di guerra di Israele», ha dichiarato Gabi Kaplan, co-portavoce di Ejp e membro del gruppo danese Jews for Just Peace, durante i saluti di apertura.
E aggiunge: «Abbiamo sentito il bisogno di organizzarci collettivamente come ebrei ed ebree per esprimere la nostra opposizione al genocidio e alla pulizia etnica, all’occupazione coloniale e all’apartheid di Israele in Palestina». Durante l’incontro, è stata denunciata «la cinica conflazione tra antisemitismo e antisionismo», non senza negare i pericoli «sempre più crescenti e reali dell’antisemitismo contemporaneo».
In questa direzione, «l’impegno a contrastare l’odio antiebraico ovunque si manifesti», ma anche «le sue strumentalizzazioni», nello specifico la definizione Ihra di antisemitismo, che «reprime il dissenso e mette a tacere qualsiasi critica di Israele».
L’EJP FA riferimento all’International Holocaust Remembrance Alliance (Ihra), organizzazione intergovernativa nata alla fine degli anni ’90 per promuovere la memoria della Shoah. Nel 2016, la sua assemblea plenaria ha approvato e diramato una definizione di antisemitismo, di cui sette degli undici punti riguardano atteggiamenti verso Israele.
Nel giro di pochi anni, la definizione è diventata giuridicamente vincolante in numerosi paesi europei (29), nonostante esistano altre definizioni, come la Jerusalem Declaration, redatte da accademici della diaspora ebraica e israeliani, che guardino con apertura alla critica a Israele.
Le stesse organizzazioni ebraiche che compongono l’Ejp sono state tacciate di antisemitismo in patria e isolate. Da qui l’esigenza di fare rete, perché «nonostante il genocidio a Gaza, chi è a capo delle organizzazioni ebraiche europee continua a sostenere acriticamente lo Stato di Israele – scrive l’Ejp nel suo documento fondativo – pretendendo di parlare a nome di tutti gli ebrei, ignorando e mettendo a tacere il dissenso sempre più crescente all’interno delle comunità».
«Non siamo così marginali come ci dipingono; da ottobre dell’anno scorso, centinaia di migliaia di ebrei in tutto il mondo sono scesi in piazza contro la guerra con lo slogan Not in my name», conclude Kaplan.
L’EJP rifiuta «la centralizzazione della vita ebraica intorno allo Stato di Israele» e piuttosto «cerca di creare comunità ovunque, oltre i confini nazionali e le tradizioni coloniali», secondo le parole di Eleonore Bronstein, del gruppo belga Ajab e De-Colonizer, durante l’evento di apertura a Bruxelles. «Il nostro ebraismo lo costruiamo con i ponti. E proprio perché siamo ebrei, fieri della propria storia, figli e nipoti di sterminati e perseguitati, siamo in modo inequivocabile con il popolo palestinese».
La rete chiede «uguali diritti per tutti nella Palestina storica dal fiume Giordano al mare Mediterraneo» e un futuro «dignitoso di giustizia e libertà». La prima battaglia concreta è quella per lo stop dell’invio di armi occidentali a Israele: «Le atrocità commesse in Palestina vengono portate avanti con la complicità degli Stati uniti e dell’Unione europea» e «non possiamo affrontare la Nakba in corso in Palestina senza guardare alla colonialità qui nei nostri paesi».